Messina ricorda Nino D’Uva, vittima di mafia

19 Febbraio 2015

10891734_794763700570763_4937762518988731910_nIeri al Tribunale di Sorveglianza di Messina sono state inaugurate tre aule. Quella delle udienze ad Aldo Moro, quella del pubblico a Padre Annibale di Francia e quella degli avvocati a mio nonno, l’Avv. Nino D’Uva, ucciso nel 1986 durante il maxiprocesso di Messina. Una vittima di mafia che troppo spesso la città sembra aver dimenticato. Per questo sono grato al Presidente del Tribunale di Sorveglianza per aver pensato a lui e anche a tutte le persone che con la loro presenza hanno voluto rendere omaggio alla sua memoria.

Ripropongo qui l’articolo di Nuccio Anselmo uscito su “i Quaderni de L’ORA” a maggio del 2011, che racconta sapientemente l’omicidio, il maxiprocesso e la città.

Una scarpa volò dalle gabbie: ordine di morte per D’Uva
L’istantanea della morte è un clic impuro. Il fiotto di sangue rappreso dell’unico colpo sparato, la cornetta caduta e scheggiata del vecchio telefono nero, la cerniera dei pantaloni abbassata per tentare l’improbabile mascariamento. Sono le sette di sera passate del 6 maggio 1986. Al terzo piano di palazzo d’Alcontres in via San Giacomo, a Messina, in pieno centro, proprio accanto al Duomo, l’avvocato Nino D’Uva è scivolato sotto la scrivania. Il killer è andato via da poco. Prima ha citofonato, si è fatto aprire dal legale che è solo nel suo studio accanto alla casa di famiglia, come sempre per ricevere i clienti fino a tardi, lo ha trovato quasi di spalle sulla poltrona girevole, sta telefonando, la sua agenda è aperta sulla scrivania alla lettera S. Ha composto i primi tre numeri, un sette, poi l’uno e il tre. Si capirà poi che stava chiamando un collega per concordare una causa di separazione. Forse non si accorge nemmeno del killer, che entra nella stanza, prende un cuscino dal divano e lo comprime sulla canna di una calibro 7.65, si avvicina, poi gli spara un solo colpo quasi alle spalle, l’effetto devastante tra il collo e l’orecchio sinistro. Un solo colpo mortale, il bossolo rotola sul pavimento.
Pochi istanti e tutto finisce, il killer esce e torna sulla strada buia perché i lampioni non funzionano da mesi, getta pistola e cuscino nel cassonetto della spazzatura, poi sale su una Mini Minor verde, c’è un altro picciotto che aspetta, la porta dello studio rimane socchiusa, nessuno ha sentito nulla, la moglie e la figlia sono a fare una passeggiata, la strada è deserta.
Passa una manciata di minuti e la donna di servizio che era uscita come sempre intorno alle cinque e mezzo del pomeriggio torna per preparare la cena, sta per entrare in casa ma nota lo spiraglio della porta di studio, chiama un paio di volte l’avvocato ma c’è solo silenzio intorno, sta per andarsene ma torna sui suoi passi e arriva fino alla stanza, vede spuntare le gambe da sotto la scrivania, si avvicina, pensa a un malore, fa mezzo giro e scopre con orrore che si tratta d’altro, il lago rossastro di sangue è inequivocabile, la cornetta scheggiata dal proiettile ancora nella mano destra del professionista. Sconvolta scende al secondo piano e si rifugia da un vicino, una telefonata innesca il solito triste rituale.
Ha sessantun’anni l’avvocato D’Uva. E’ uno dei penalisti più in vista della città ma non solo, dietro quelle lenti spesse che sanno vedere lontano nell’animo umano al di là del “fascicolo”, sanno parlare e incantare in un’aula di giustizia, c’è anche un intellettuale molto stimato, grande appassionato di pittura, teatro e musica, un uomo di raffinata cultura, che da poco è stato entusiasta per la contestata riapertura del teatro Vittorio Emanuele dopo vent’anni d’oblìo, che ha difeso con forza la musica di quella serata contro la solita sciatteria dei critici del “sempre e comunque”.
Quell’unico proiettile calibro 7,65 colpisce un’intera città sempre sonnolenta, pochi minuti e la notizia devastante fa raccogliere decine di amici e conoscenti in via San Giacomo, la moglie e la figlia al rientro notano l’andirivieni dall’appartamento e apprendono tutto nel peggiore dei modi, ammesso che ne esista uno migliore quando muore qualcuno, la disperazione rimane l’unica compagna.

L’indomani lo strazio e il dolore a Messina sono pari alla sorpresa di chi non s’aspetta mai nulla di così eclatante. Ma il colpo più duro è in un’aula di giustizia, quel proiettile risuona implacabile nell’aula bunker del carcere di Gazzi, dov’è appena cominciato il primo grande maxiprocesso alla mafia peloritana, il secondo istruito in ordine di tempo dopo il cosiddetto “processo dei 69”, che ha fotografato invece la malavita organizzata a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Gli investigatori focalizzano l’attenzione sul maxi ma non trascurano però un altro particolare. D’Uva è padre di un magistrato, Giuseppina, in servizio a Palmi come giudice delegato ai fallimenti, e genero di un altro magistrato, Melchiorre Briguglio, che lavora alla sezione penale del tribunale di Reggio Calabria. La figlia prima di transitare al civile ha istruito diversi processi di mafia e ’ndrangheta.
Il “processone” di Messina è cominciato da poche udienze, è a carico di 283 imputati suddivisi in quattro clan tra la città e Barcellona Pozzo di Gotto. Di questi 283 D’Uva ne difende tredici. Un maxiprocesso che parla di una mafia ben diversa da quella degli anni Settanta a Messina, di un’evoluzione storica verso solidi e proficui legami soprattutto con la ’ndrangheta calabrese per trattare grandi quantità di droga, di estorsioni a tappeto, di rigide gerarchie criminali mutuate dai cugini reggini.
Dopo la clamorosa sottovalutazione del fenomeno criminale a Messina degli anni passati, di cui ancora oggi si scontano le conseguenze anche sul piano della consapevolezza generale, è la prima volta che le gabbie dell’aula bunker di Gazzi si riempiono di capi, gregari e fiancheggiatori di clan mafiosi, i loro nomi ogni volta che risuonano per il lungo appello creano tensione. Sono quattro i gruppi mafiosi secondo la monumentale istruttoria: il clan di Gaetano Costa “facci ’i sola”, l’ultimo vero padrino della criminalità peloritana, ritenuto affiliato alla ’ndrangheta sin dalla fine degli anni ’70, che ha fatto nascere il “crimine organizzato” a Messina strutturando il suo gruppo e mutuando tutte le gerarchie tipiche calabresi, che ha spodestato l’egemonia di Lorenzino Ingemi, c’è anche il suo gruppo coinvolto al maxi. Poi ci sono i clan di Placido Cariolo e del boss barcellonese Carmelo Milone. Ma è Costa il primattore, è già “capo società”. Ha carisma, sa parlare in italiano, ha legami solidissimi con molti suoi “colleghi” calabresi e palermitani, è amico di Cutolo tanto da essere imputato anche al maxiprocesso di Napoli contro la Nco. Quand’era giovane ha ammazzato in carcere a Reggio Calabria con una sequenza impressionante di coltellate lo “smilzo”, Antonino Timpani, uno che all’epoca contava qualcosa nella mafia messinese. Quando depone in aula al maxi con la sua solita spavalderia e sicurezza parla di “fantasie di una mente bacata” per bollare il pentito Insolito, da cui era iniziato tutto, respinge le accuse per gli omicidi che gli vengono contestati dicendo che ha letto delle esecuzioni solo sui giornali, si dichiara “contrario per educazione all’uso e allo spaccio di droga”. Dalle gabbie dirige la rivolta degli imputati, un giorno lancia perfino una scarpa, poi qualche tempo dopo prende la parola per tacitare tutti e dichiara: “niente più ostruzionismi, vogliamo che si finisca presto”. Solo molti anni dopo, una volta pentito, spiegherà il suo modo di fare proprio in relazione all’omicidio D’Uva. Ha inveito contro il penalista pubblicamente in aula, lo ha chiamato “pezzo di fango”, per cercare di stoppare il proposito d’ucciderlo, lo avrebbero subito indicato come mandante, era un messaggio ai suoi picciotti del tipo “state attenti che incastrano me”.
E’ la stagione dei maxiprocessi. Quasi in contemporanea a quello di Palermo a Cosa nostra e a quello di Napoli alla Nuova camorra organizzata arriva Messina con il suo elefantiaco intervento dello Stato. Un intero quartiere della zona sud verso Catania, è sotto assedio. E’ subito difficile, molto difficile per il presidente Domenico Cucchiara, che parecchi anni dopo finirà travolto dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, gestire le prime udienze. Ogni volta che la corte entra in aula cominciano fischi e urla, l’atmosfera è sempre pesantissima, la tensione si respira ogni giorno. Succede di tutto perché fondamentalmente gli imputati rifiutano di essere giudicati, si “sentono” tutti innocenti e lo gridano in continuazione. C’è perfino un imputato di Siracusa che di soprannome fa “il santone” e recita d’essere la reincarnazione del Papa. Quando viene chiamato a deporre s’inginocchia a pregare davanti alla corte. Teatro d’udienza.
La lunga lista finalmente nero su bianco di appartenenti alle cosche nasce dalle dichiarazioni del primo pentito della storia giudiziaria messinese, Giuseppe Insolito, che molti chiamano “Inzollitto”, il Buscetta di Messina, il quale molti anni dopo spenti i clamori finirà la sua vita in Calabria, nei dintorni di Cosenza, per una storia di esplosivi malfunzionanti mai fino in fondo chiarita. Quando Insolito capisce che lo hanno “posato” (“ero filato”) e lo vogliono uccidere decide di raccontare tutto e si chiude in una caserma della polizia con i magistrati. Per fare il passo sceglie un modo eclatante, mentre si trova in carcere a Ragusa rapisce un agente di custodia e al processo grida ai giudici: “Voglio parlare con il dottor Franco Providenti della procura di Messina”. E’ il 1984. Pochi mesi dopo in quella caserma della polizia Insolito è un fiume in piena ma davanti a un collega di Providenti, il sostituto Rocco Sisci. Alla fine, dopo mesi, ci sono sul piatto oltre trecento pagine di dichiarazioni, scatta il blitz della notte di San Paolino, centinaia di uomini irrompono in 290 ville, casupole e baracche di Messina, quasi tutti vengono arrestati. Il maxiprocesso comincia il 14 aprile del 1986. Nel frattempo le cosche hanno reagito tentando di uccidere prima la madre, subito dopo il rinvio a giudizio, e poi il padre, dopo la sua deposizione in aula, del pentito Insolito. Alla fine, nel corso del maxi, si conteranno otto cadaveri tra affiliati e gregari. La mattanza è continuata, molte esecuzioni vengono decise dalle gabbie. Si capirà poi che anche per D’Uva è stato così. L’omicidio è la curva mafiosa più alta di una serie di avvertimenti pesantissimi, tutti a penalisti impegnati nella difesa di mafiosi, avvenuti negli anni precedenti in città. Si contano ben otto casi tra gambizzazioni e attentati incendiari.
La prima pista investigativa sul delitto del legale, avvenuto ad appena un mese di distanza dall’apertura del maxiprocesso, parte proprio da lì. L’avvocato la mattina dell’omicidio è intervenuto in aula in maniera forte, una sua foto con la mano alzata e vicina al banco della corte è l’ultima tragica istantanea in vita. Prima che si aprisse una camera di consiglio per decidere su alcune perizie psichiatriche ha ottenuto non senza problemi di poter replicare al pm Franco Providenti, che sostiene l’accusa insieme al collega Italo Materia.
Poi, dopo uno stop di quasi un mese del processone, dilaniato dalle polemiche tra il collegio difensivo e la corte, ci saranno anche clamorosi abbondoni in massa dell’aula da parte degli avvocati, spunta una pentita catanese, Francesca Privitera, che di soprannome fa “Patty la minorenne”. Sembra il titolo di un film a luci rosse. La Privitera, nota anche come “la postina della Camorra”, racconta in aula nel corso di una lunga deposizione che poco prima della morte aveva nominato come suo difensore di fiducia proprio l’avvocato D’Uva, su consiglio di due altri imputati che erano assistiti dal legale. Racconta anche di una storia di droga all’interno del carcere di Gazzi, di baci per passarsi la “roba” senza farsi notare. Ma tutto si arena. Rimane una pista lacunosa, non si trova alcun collegamento serio tra la pentita e la morte del legale.
Sull’omicidio dell’avvocato D’Uva cala il silenzio. Intanto il 3 aprile del 1987 dopo quasi un anno di vita, sono passati 354 giorni e 134 udienze, il maxiprocesso si conclude in primo grado con una sentenza che lascia molto delusa la procura. Dopo quindici giorni di camera di consiglio dei 245 imputati rimasti solo in 65 vengono condannati, ben 163 vengono assolti per non aver commesso il fatto, altri 17 per insufficienza di prove. Vengono inflitti “solo” 394 anni di carcere contro i 1.020 chiesti dall’accusa. Soltanto per gli affiliati del clan Costa viene riconosciuta l’associazione mafiosa, in tutto sono 26, al padrino la condanna più alta a 13 anni, per gli altri imputati rimasti niente mafia ma solo associazione a delinquere, i capi riconosciuti Cariolo e Milone si beccano una condanna a 6 anni, Lorenzino Ingemi viene assolto. Il pm Providenti dichiara: “Questa sentenza non corrisponde alla realtà criminale esistente a Messina”. Il pm Italo Materia prima di concludere la sua requisitoria dirà parlando del delitto dell’avvocato di “bagliori d’inaudita ferocia”, concludendo che “il delitto D’Uva fu compiuto per influire sul maxiprocesso”. Una profezia.
Il fascicolo dell’avvocato D’Uva rimane però impolverato in uno scaffale, la mafia peloritana intanto cresce dopo aver incassato la sentenza che non riconosce la sua asfissiante pressione su Messina e sulla provincia. Dobbiamo arrivare alla metà degli anni ’90 per vedere la luce, all’indomani della stagione del pentitismo, che a Messina registra picchi altissimi e molto spesso controversi, con dichiarazioni “aggiustate”.
Il 5 gennaio del 1993, a quasi sette anni di distanza dall’esecuzione, nessuno più si ricorda di nulla. La tensione morale è calata del tutto. I carabinieri che non hanno mai smesso di lavorare alle indagini dopo aver consegnato un’informativa in procura nel 1992, hanno tre ordinanze di custodia cautelare da eseguire, siglate dal gip Ferdinando Licata. E’ stato per primo il pentito messinese Umberto Santacaterina qualche mese prima a parlare, poi lo farà anche Costa, che si pente e si autoaccusa. Ma si saprà dopo. Lui è in carcere all’Asinara, in Sardegna, lì gli notificano il provvedimento. E’ il mandante insieme al suo luogotenente Mario Marchese, che è in cella a San Vittore, a Milano, e che alla fine della storia sarà assolto da tutto. C’è anche il nome del killer, un ragazzino di 19 anni nel 1986, fedina penale all’epoca ancora pulita. Si chiama Placido “Dino” Calogero e si trova nel carcere di Gazzi a Messina, è accusato d’aver cercato d’uccidere il boss del rione Giostra Sarino Rizzo, nel corso della mattanza degli anni ’90 a Messina. La tesi dell’esecuzione è quella di sempre, sussurrata e mai fino ad allora provata: un segnale inequivocabile e devastante soprattutto agli avvocati, che i clan giudicavano troppo poco impegnati, “molli” al maxiprocesso del 1986. E’ il primo eclatante atto della “strategia del terrore” decisa proprio dalle gabbie di Gazzi dal padrino Costa per influenzare tutto e tutti, giudici e avvocati, mutuando le parallele strategie di Cosa nostra palermitana di quegli anni.
Passa quasi un anno e alla prima spiegazione tutta messinese si salda un’altra causale altrettanto credibile, quella calabrese. Il 15 giugno 1994 il gip di Catania Antonino Ferrara firma un’ordinanza di custodia cautelare per il capo bastone della ’ndrangheta Natale Iamonte, che all’epoca ha 67 anni, l’ex macellaio di Melito Porto Salvo che è diventato ricco iniziando a fare soldi con gli appalti pubblici destinati allo sviluppo della Calabria. Per esempio con la costruzione della raffineria di Liquichimica a Montebello Ionico, un progetto da 300 miliardi di lire. Una struttura che non diverrà mai operativa perché costruita su un terreno non idoneo, soggetto a smottamenti, malgrado le attenzioni dell’ingegnere del Genio civile locale che poi morirà in uno strano incidente d’auto. In questo caso a parlare è un altro pentito storico, il calabrese Pasquale Barreca, che racconta all’allora sostituto della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Verzera, messinese, di avere appreso tutto da un nipote del vecchio capomafia mentre erano insieme in cella. L’ordine Iamonte lo ha dato dalla sua cella, dopo aver subito una condanna a 7 anni come capo della ’ndrina di Melito Porto Salvo davanti al tribunale di Reggio Calabria presieduto dal giudice Agostino Cordova. S’era fatto l’idea che le cose sarebbero andate diversamente perché in quel processo uno dei magistrati impegnati era Melchiorre Briguglio, il genero dell’avvocato D’Uva, e i suoi parenti erano “scesi” a Messina per parlare con il penalista chiedendogli di assumere la difesa, un’offerta respinta al mittente. Da quel momento insieme a Costa e Barreca dell’esecuzione parlano in tanti, ma l’impianto della due causali pur con alcuni distinguo, soprattutto di Costa, regge. Si fa luce anche sull’uomo alla guida della Mini Minor che quella sera ha accompagnato il killer ragazzino, è “l’autista” Giuseppe De Domenico, messinese. Il processo, le due piste giudiziarie nel frattempo sono state unificate, si trasferisce a Catania per la competenza ex art. 11, visto che la storia riguarda un magistrato parente del penalista, Briguglio. Il 7 dicembre del 1995 la corte d’assise etnea decide l’ergastolo per Iamonte, Calogero e De Domenico, infligge 15 anni al padrino Costa, cui riconosce lo sconto di pena per i pentiti. Già allora la sentenza parla di “notevole materiale probatorio di cui si dispone”. In secondo grado le condanne si riducono. Il 26 gennaio del 1998 la corte d’assise d’appello di Catania porta la pena a 24 anni per l’anziano boss di Melito Porto Salvo, a 23 anni e mezzo per Calogero, a 21 anni per De Domenico, a 12 anni per Costa. Passa un anno e il 4 gennaio del 1999 la I sezione penale della Cassazione chiude la vicenda processuale confermando integralmente la sentenza d’appello. Sono passati tredici anni dalla morte dell’avvocato D’Uva, la cui famiglia è stata parte civile in tutti i processi. Costa nel corso di questa controversa storia giudiziaria fornirà qualche “precisazione”: Iamonte non gli chiese direttamente di uccidere il penalista dalla sua cella, ma affidò la richiesta a due suoi figliocci all’epoca molto emergenti, Placido “Nuccio” Cambria e Domenico “Mimmo” Cavò, poi ammazzati nella guerra di mafia degli anni ’90. In quel periodo probabilmente i due trafficavano con il boss calabrese per grosse partite di droga, non potevano dire di no. Lui avrebbe voluto solo una gambizzazione, poi seppe di com’era andata da Cambria. I processi e le dichiarazioni dei pentiti chiariranno poi che l’ordine partì proprio dalle gabbie del maxiprocesso, un segno d’assenso di Costa al killer ragazzino Calogero che quella mattina si era mescolato tra il pubblico e i parenti degli imputati, quando quella scarpa venne lanciata in aula, gridando contro D’Uva, proprio dal padrino Costa. Si capirà anche la dinamica, del cuscino schiacciato sulla canna della pistola, del pantalone sbottonato da Calogero per favorire l’inconsistente movente passionale. Quella devastante esecuzione influì sul primo grande maxiprocesso alla mafia messinese? L’interrogativo ancora oggi rimane sospeso.
Oggi in uno dei corridoi del palazzo di giustizia di Messina, al primo piano, c’è una lastra di marmo che ricorda l’assassinio dell’avvocato D’Uva “stroncato da cieca violenza”. Quando la posarono c’era tanta gente, adesso tutti ci passano sotto indifferenti, affogati da udienze e verbali.

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