Nassiriya, sud dell’Iraq. Sono le 10:40 del 12 novembre 2003 quando un camion con a bordo alcuni ribelli della resistenza irachena forza il posto di blocco all’entrata della base italiana dei carabinieri “Maestrale”, proseguendo la sua folle corsa fino al palazzo di tre piani in cui si trovava il dipartimento logistico del corpo. Pochi attimi dopo un altro camion, un’autobomba, fa irruzione all’interno della base militare, sfruttando il varco appena liberato dal precedente convoglio, esplodendo proprio davanti l’ingresso della caserma. In un istante, data l’incredibile potenza esplosiva dell’ordigno, la struttura di tre piani della base viene quasi completamente distrutta. È una strage. Pochi minuti dopo, in Italia, le nostre televisioni iniziano trasmettere i primi servizi. Si parla di un gravissimo attentato alla base militare italiana dei carabinieri a Nassiriya, un attacco kamikaze che avrebbe provocato decine di vittime.
Oggi, 12 novembre 2013, a distanza di 10 anni esatti da quel terribile giorno ricordiamo la strage di Nassiriya come il più grave attentato subito dalle nostre truppe militari dalla fine della seconda guerra mondiale. Al termine delle operazioni di soccorso, infatti, saranno 19 i nostri connazionali deceduti a causa di quell’esplosione: 12 carabinieri, 5 militari dell’esercito italiano e 2 civili.
In questo triste anniversario, nel giorno della commemorazione e del cordoglio per quelle vittime, nella giornata in cui il nostro Paese si stringe alle loro famiglie nel doloroso ricordo, mi sento particolarmente scosso.
La mia mente non può non tornare a quei giorni di 10 anni fa. Avevo 16 anni e, tornando da scuola, avevo appreso la drammatica notizia. Le tv locali parlavano di un attentato gravissimo ai danni dei nostri militari in missione nella guerra in Iraq e del possibile coinvolgimento di due cittadini messinesi, il maresciallo aiutante Alfio Ragazzi e il sottotenente Giovanni Cavallaro, quest’ultimo da alcuni anni residente in Piemonte. Poche ore dopo quella che appariva come una possibile notizia trovava la sua triste conferma. I due carabinieri messinesi sono tra le 19 vittime di Nassiriya. Avevo la piena consapevolezza di non poter far nulla per quelle persone, anche se dentro di me provavo un profondo senso di tristezza.
Una settimana dopo la salma di Alfio Ragazzi ritornò in Sicilia per i funerali locali, e io mi strinsi insieme a tutta la città attorno alla sua famiglia, nella piazza del Duomo a Messina. La mia terra pagò un prezzo altissimo quel giorno, dal momento che ben 7 di quei ragazzi erano nati in Sicilia.
Sono trascorsi 10 anni da quella strage e in questo giorno, ancora di più, voglio stringermi attorno alle famiglie di quelle vittime, alle famiglie di Alfio, Giovanni, Giuseppe, Ivan, Domenico, Horacio, Emanuele e di tutti gli altri militari e civili caduti a Nassiriya.
Oggi però non sono solamente un cittadino che, commosso, ricorda quei ragazzi. Oggi sono un cittadino all’interno delle istituzioni e posso fare qualcosa di più. A differenza di allora, infatti, posso chiedere con grande forza al Governo di questo Paese di impegnarsi affinché mai più accadano simili eventi. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, così come sancito dalla Nostra Costituzione. È in virtù di questo fondamentale principio che chiedo a chi rappresenta oggi il potere esecutivo dell’Italia di non limitarsi alla doverosa commemorazione dei suoi caduti, ma di impegnarsi attivamente affinché nessun altro militare debba perdere la propria vita in guerre assurde come quella irachena. L’ignoranza, intesa come assenza di cultura e istruzione, e la disperazione, causata dall’assenza di risorse per sopravvivere in maniera dignitosa, non possono che continuare ad alimentare l’odio tra i popoli.
Il nostro Paese non può credere di risolvere problemi così profondi attraverso l’utilizzo della forza. La pace si diffonde con l’impegno civile degli Stati più ricchi nei confronti di quelli più sfruttati, attraverso un’equa distribuzione delle risorse, non con continui interventi militari.
Vogliamo che i soldati restino in Italia a difendere il loro Paese.
I militari italiani, con totale dedizione e spirito di sacrificio, sono pronti a rispettare ad ogni costo le nostre decisioni politiche e a metterle in atto. È per tale motivo che una così grande responsabilità deve spingerci a fare sempre il possibile affinché loro non debbano mai rischiare la propria vita invano, affinchè le nostre scelte ripaghino sempre la loro fiducia, il loro senso del dovere e, come in questo triste caso, il loro sacrificio.